Un film sulla vita di Giacomo Leopardi sembrerebbe istintivamente
impensabile. Come si
fa a raccontare un genio, un animo complesso, dolente e infinitamente
infelice, la sua epoca così singolare? Raccontare sulla pellicola la
storia del più strordinario genio della nostra Letteratura pare non
fosse idea nuova. Fu ventilata questa possibilità molti anni fa, una
decina credo, con Sergio Rubini nel ruolo del protagonista. Produzione
che poi non fu mai realizzata. La sfida viene raccolta da Mario Martone,
in una produzione che porta la sua firma nello stile e nel rigore del
racconto.
Questo è un film che emoziona, uno di quelli che alla fine ci lascia
attoniti e incapaci di lasciare la sala del cinema, mentre quella
colonna sonora dal ritmo moderno descrive l'ultimo canto di Giacomo, il
testamento poetico che declama dinanzi al cielo notturno di Napoli, e
lui ancora una volta come sgomento dinanzi al creato, percepito fin
dalla sua cosmogonia, come se la sua mente si dilatasse un'ultima volta
dinanzi a spazi siderali che egli percepisce fin dalla sua adolescenza.
Elio Germano, il suo interprete, vince pienamente la sua prova più
difficile finora affrontata. Credibile, struggente, tenero, dolente,
traspira quel dolore ineffabile che Leopardi ha sublimato in versi di
infinita e ineguagliabile bellezza, oltre che in tante opere
scientifiche e filosofiche. Il rigore di Martone è assoluto, la storia
del giovane Leopardi è un racconto che in tutta la prima parte ha come
scenario la Recanati amata e odiata, gli ambienti austeri della casa,
l'ordine e la dedizione alla biblioteca, centinaia e migliaia di fogli
scritti minuziosamente, le solitarie passeggiate sul colle dal quale
immaginare scenari nuovi, la finestra nella quale è incorniciata una
giovane Teresa Fattorini destinata a morte precoce.
Su tutto il dolore di un giovanissimo Leopardi che subisce l'austerità
della madre e l'ossessivo attaccamento paterno, mentre una malattia
deformante affligge i suoi giorni e paradossalmente gli dona un
osservatorio personale dal quale percepire il destino degli uomini.

...io non ho bisogno di stima, di gloria o di altre cose simili. Io ho bisogno di amore, di entusiasmo, di fuoco, di vita.
Giacomo è come assetato di qualcosa di cui percepisce l'esistenza e allo
stesso tempo sente che a lui non è destinato. Il dolore si alimenta di
un'insoddisfazione profonda, pertanto dilaga e segna irrimediabilmente
le sue relazioni col mondo che incontrerà. Infatti, nella seconda parte,
Leopardi ha acquisito la sua libertà, vive a Firenze, poi Roma, poi
Napoli, quel mondo che aveva idealizzato e dinanzi al quale resta
deluso, nell'amore non condiviso dall'aristocratica Targioni Tozzetti,
nella constatazione di non appartenere a una società che inneggia a
"magnifiche sorti e progressive" dalle quali si sente a distanza,
nell'unico conforto dell'amicizia di Antonio Ranieri. Nel mutare degli
scenari non muta Giacomo, che precocemente era giunto al Vero, al Dubbio
come suo assoluto, e al quale non resta che porsi come spettatore
dinanzi alle miserie degli uomini, compatirli e vivere le sue altissime
intuizioni mentre la storia si fa dinanzi ai suoi occhi.
Ogni delusione è pertanto linfa vitale dentro Leopardi, che si contorce
fino alla paralisi in uno spasmo che è già morte, ultimo viaggio che
Silvia additava nella chiusa della canzone a lei intitolata. Gli ultimi
giorni di Leopardi sono lenti e riflessivi, è adulto ma in lui non ha
mai smesso di vivere il fanciullo recanatese che si dibatteva nel suo
furore intellettuale. Se dovessi immaginare un centro assoluto di questa
mirabile pellicola, esso si concretizzerebbe nella frase che tuona
dinanzi al padre Monaldo: Io odio questa prudenza che rende impossibile ogni grande lezione, padre!!!
Qualcosa che rende Giacomo Leopardi non più lontano nel tempo, nella
forma, nell'intelletto, ma straordinariamente vicino, attuale, in
quell'anelito di vita che accomuna tutti i grandi animi che sanno
percepire la Bellezza e farsene vivi assertori.
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